Ricordando Superga

La commozione di Pozzo

Fu quella, una delle serate più tragiche più dolorose della vita mia. La morte di quel Torino, al quale avevo dedicato tanta parte dell'esistenza. Non ero stato a Lisbona. Una differenza di opinioni, che durava da tempo, e che, proprio allora si era inacerbita, mi aveva salvata la vita. Me ne ero andato, allora, a Londra, ad assistere alla finale della Coppa d'Inghilterra, come avevo fatto tante altre volte in precedenza. Ero tornato in aereo, e, depositato il bagaglio a casa, ero andato a pranzo in un piccolo ristorante toscano vicino a piazza Solferino. Poi, me ne stavo tornando lentamente a casa, e notavo, per le strade, una agitazione che non sapevo a che cosa attribuire. In via Pietro Micca mi si avvicina una macchina. Ne scende, agitatissimo un autista della "Stampa" che mi grida: "Finalmente!" "Cosa c'è?". "Ma lei non lo sa? è morto il Torino!". Quell' "il" mi rese incredulo. "Come 'il' Torino: tutto? ". Proprio così. Filai subito a Superga, e giunsi prima di tanti altri. Fatto il giro dietro alla Basilica, piombai nel vivo di quello spettacolo orrendo. Da un deposito, che pareva una legnaia, stavano estraendo i primi cadaveri. A terra, qualcuno cercava di identificarli, sbagliando. Stavo rettificando, perchè ne conoscevo a memoria perfino gli abiti, quando un militare mi si piantò, rispettoso, davanti, asserendo che mi doveva parlare. Era il maresciallo dei carabinieri, di guardia stabile alla Basilica. "Il riconoscimento delle salme deve farlo lei." Mi conosceva. La richiesta mi fu poi ripetuta dal capitano dei Carabinieri stessi che arrivò un momento appresso. Ricordo John Hansen lo juventino, che, avvolto in un lungo impermeabile scuro, mi abbracciò. A sera, mi si venne a prendere e mi si portò al cimitero generale. Tralascio i particolari del riconoscimento davanti ai funzionari che affollavano le due camere mortuarie. Mandai via un conoscente che mi aveva voluto seguire, e che, colle sue osservazioni, stava togliendomi coraggio. Uno per uno, li riconobbi tutti. Mi occupai di tutto, fuorchè dei portafogli, dopo di aver controllato il contenuto di qualcuno di essi: lasciai al commissario di polizia la ingrata e delicata bisogna. Pochi dei giocatori erano deformati nelle fattezze, parecchi avevano perduto le scarpe od addirittura ambo i piedi come tanti soldati in guerra. Il solo allenatore inglese, Lievesley era perfettamente intatto. Feci ritorno al giornale, dove scrissi l'elogio funebre che da me il direttore desiderava. A casa fui assediato di telefonate. Poi andai a Palazzo Madama, dove le salme erano state disposte in bell'ordine, e lì caddi nelle braccia di Piero Ferraris, l' ala sinistra vercellese, che, come me, aveva evitato il viaggio. Ressi il primo cordone di sinistra del primo feretro del lungo corteo, e quello mi parve il funerale più lungo e più imponente che avessi mai visto: chilometri e chilometri di donne in ginocchio e di bambini piangenti. C'era tutta Torino: mi parve ci fosse mezza Italia. Era il mio Torino. Era la squadra alla costruzione della quale aveva dato tanta collaborazione. Ne avevo portato dieci su undici nella Nazionale nostra, tutti in una volta sola. Ne ricordavo, mentre camminavo, le prodezze e le biricchinate: Mazzola colle "grane" familiari, Rigamonti colla sua motocicletta, Grezar col suo mesto sorriso, Gabetto "il barone" sempre scherzoso. A cerimonia finita, io mi trovavo come nel mondo dei sogni, tante cose avevo per la testa. Mi accompagnò a casa un antico compagno d' armi, un capitano degli alpini che, in divisa, mi aveva seguito per tutto il percorso. Non una parola, in macchina. Il silenzio diceva tutto. Sulla soglia di casa mi abbracciò. Io corsi a gettarmi sul letto.

Vittorio Pozzo

Piano, hanno sonno

L'ultima visita di Pozzo ai ragazzi del suo Toro

Torino, 5 maggio. Arrivò un piccolo ragazzo in bicicletta, frenò dolcemente sull'asfalto vischioso di pioggia, sollevò il cappuccio grondante dell'impermeabile. Disse a una guardia: "Ho questi fiori e mi hanno detto di darli a loro." La pioggia si schiacciava silenziosa sull'asfalto, sul marciapiede di terra battuta, lavava a raffiche improvvise e nervose il cancello del cimitero. Di là c'era una finestra illuminata, una luce giallastra e insinuante che lustrava con attenzione le giberne lucide dei soldati e si allargava sulla strada. Il ragazzetto guardò un attimo in alto, verso la finestra, poi voltò gli occhi e ancora tese i fiori: "A loro, mi hanno detto di darli.". I soldati avevano il viso di pietra e non parlavano. Ogni tanto dal loro silenzio si alzava stancamente un meccanico "circolate" e la folla, con sollecitudine rispettosa, si faceva più da parte, nell'ansia di disturbare. C'era quella finestra accesa al di là del cancello ed era un taglio al cuore di chi stava a guardare. E quella luce giallastra che si impastava di pioggia, i visi opachi della gente e le giberne dei soldati di guardia. Il ragazzetto appoggiò i fiori al cancello con delicata cautela e il cellofane frusciò dolcemente. Poi risalì in bicicletta e si allontanò nel gran piovere: i fiori erano rimasti a pregare per lui e per i suoi amici più grandi; più tardi, quando la luce di quella finestra si sarebbe velata e affievolita nelle ombre pietose del raccoglimento, il ragazzo aveva capito che glieli avrebbero dati. Fu una notte che nessuno ebbe sonno, a Torino, e la gente si raggruppava paziente come in attesa di una favolosa notizia, gente intimidita al pensiero di ritrovare nella solitudine della propria casa il desolato stupore delle disgrazie. Insieme l' assurdo era più tollerabile , e insieme guardavano il cielo tetro a pioggia, si avviavano fino alla morgue, ascoltavano il giorno che veniva su a fatica a dire che tutto era finito. Perchè soltanto di giorno avrebbero saputo che erano morti, quando la luce di quella finestra non si sarebbe più dilatata sulla pelle lucida e nera della strada, e l'incantesimo piovigginoso delle lunghe ore di buio si sarebbe diradato. Per ora non c'era che la stupefazione atroce e smarrita del primo momento. Il dolore sarebbe venuto dopo, il dolore non ha mai fretta di venire. Nelle vie, la folla aspettava, e non sapeva bene cosa. Ogni tanto l'arrivo di qualcuno, il guizzar nevrastenico e breve di una notizia falsaria, e le folli notizie che fioriscono chissà come dai rottami della disgrazia, davano un trasalimento, un' emozione nuova. Quando molti videro Pozzo, gli furono attorno: il vecchio generale degli azzurri; erano venuti a prenderlo in automobile per condurlo all'ultima, più amara rassegna dei suoi ragazzi. Vittorio Pozzo parlava con voce chiara e staccata, soltanto nei suoi occhi brillava una fissa e misteriosa inquietudine: "Mi hanno detto di andare per tentare di riconoscerli, e come potrei non riconoscerli, i miei ragazzi che ho cresciuti uno per uno?". E pioveva. "Facciamo presto - diceva Pozzo - facciamo presto.". Di tutti coloro designati al riconoscimento era o pareva quello meno costernato all'idea dello strazio di un confronto dove la pietà e la commozione devono essere rigidamente compresse da una giusta burocrazia giuridica. La luce giallastra che si appoggiava lugubre al davanzale della finestra dell'obitorio e si aggrappava alle inferriate del cancello, curiosa e maligna di vedere, non aveva sbigottito gli echi netti e sonori della voce del vecchio generale. Ancora una volta con i suoi azzurri, come a Londra, a Parigi, a Praga, Pozzo entrò deciso ed eretto, non ebbe orrori od incertezze, un padre non ha mai paura di andare dai suoi figli nè di guardarli sul viso. Ad uno ad uno li avrebbe guardati, con attenzione lunga e amorosa, ecco Valentino, e Valerio, e Virgilio, hanno tutti un gran sonno e il vecchio Pozzo li chiama con voce lieve e sottile. Dieci e dieci volte nelle silenziose camerate alla vigilia delle grandi partite, li ha visitati così, in silenzio, ed ha toccato con le mani leggere le loro coperte, e poi è rimasto un poco a pensare e a sognare. Tutti insieme, anche adesso. China la vecchia testa su di loro e ad uno ad uno li chiama: Valentino, Valerio, Virgilio... Ma piano, perchè hanno una grande stanchezza e il sonno è la loro sterminata vacanza.

Giorgio Fattori

Ciao, Campioni